Nei miei appunti sulle sinestesie tatto-udito, avevo introdotto il potere della musica, e dell’approccio musicale al piede, là dove soltanto nella sospensione del tempo, che sopravviene alle percezioni sensoriali acustiche e tattili, la vista può fissare l’idea atemporale dell’essenza. Come a dire che sulla lettura visiva del piede prevale il suo ascolto.

Nel trattamento del piede, le mani possono essere guidate dalla vista o dall’udito.

Utilizzare le mani (tatto) come veicolo di ascolto (udito) del piede, consente la via dell’interiorità e della coscienza, che è un tempio in cui dimora il divino. “Per questo prediligo applicare ai piedi una manualità mossa dall’udito, anziché dalla vista.”

Quando tratto piedi lavoro a occhi chiusi. L’ascolto avviene per via tattile, grazie al sentire delle mie mani, sesto senso che ho acquisito col mio personale percorso interiore di resa corporea (incarnazione) della materia musicale.

Sul piano dell’indagine scientifica, una ricerca del Max Delbrück Center for Molecular Medicine (MDC) di Berlino ha evidenziato che fra tatto e udito c’è un’affinità ancestrale: sensibilità tattile e acuità uditiva vanno di pari passo. Questo parallelismo è legato alla presenza di geni che intervengono in entrambi i processi e indicano una probabile ascendenza evolutiva comune dei due sensi, che sfruttano entrambi, sia pure in modo differente, recettori sensibili a variazioni di pressione, che trasformano in impulsi elettrici.

Proseguo con questi appunti, che tali sono data la complessità del tema, ovvero la potenza della musica, in particolare per come viene raccontata prima da Richard Strauss, poi da Heinrich Von Kleist, nel 1810, nel suo racconto Santa Cecilia o la forza della musica, nel quale si apprende il potere della musica di condurre alla pazzia per contrappasso, o parimenti alla salute dell’anima. Qui la musica risponde alla furia iconoclasta dei protagonisti, che intendono distruggere le immagini e le vetrate presenti in un santuario, con una musica soprannaturale che li riduce a burattini devoti allo stesso culto che volevano profanare. Metafora della forza della musica a difesa dell’immagine posta a simbolo del trascendente.

Il mio obiettivo è di orientare l’attenzione al fatto che, rispetto alla vista, tatto e udito sono di gran lunga più adatti a sondare gli abissi dell’anima. E ugualmente la percezione uditiva del piede muove le mani sul piede in modo più sapiente, rispetto alla guida della percezione visiva. Il potere guaritore del suono supera quello della vista.

Tatto e suono toccano l’anima, l’immagine la condiziona e asservisce, salvo che ci si arrivi per via contemplativa, la quale trasforma in essenza la figura come apparizione

E’ esperienza comune che le sensazioni uditive riescano a sondare abissalmente l’animo umano, mentre quelle visive rimangono invece bidimensionali, in buona parte perché l’udito è connaturato al tatto poiché le vibrazioni sonore ci toccano premendo il timpano similmente a come la pressione di un dito può esplorare la pianta del piede. 

Le vibrazioni ottiche rappresentano colori la cui fisicità ci sfugge, e si impongono alla retina in modo persistente irrigidendosi (o sublimandosi) in visione (ipotesi della persistenza retinica, successivamente dell’ipotesi del fenomeno phi che coinvolge diverse aree corticali, anche applicato alle immagini in movimento nell’illusione cinematografica).
Invece i suoni nel loro succedersi ci sono fino a che ci sono, poi rimane il silenzio. Il suono non si tocca. Dal suono si viene toccati.

Il primato della musica sulla parola e sulle arti figurative è stata un’acquisizione relativamente recente, nel cammino delle relazioni fra le arti: è avvenuta per gradi sul finire del ‘700, con il sorgere e l’affermarsi della nuova sensibilità romantica in opposizione all’età dei lumi. Non a caso, che in principio fosse il Verbo è cattiva traduzione per il corretto significato, che è Suono: in principio era il suono, vibrazione sonora, significato, non la parola. 

Nell’Antico Testamento l’ascolto è la via alla conoscenza di Dio. L’ascolto della Parola è acustico. Del resto nella tradizione islamica l’immagine non è ammessa in quanto sollecita il politeismo delle versioni, l’adorazione di idoli.
Dalla fascinazione del puro fenomeno sonoro-musicale nascono i misteri dell’antica Grecia, essendo intrinseco alla musica l’intrecciarsi variegato fra mito e melodia. Nel mondo greco il termine mousikè indica il complesso delle arti a cui presiedono le Muse, non solo l’arte dei suoni, ma anche la poesia e la danza: musica è cantare un racconto mitico.

Della mutevole gerarchia fra musica e poesia fa cronaca Richard Strauss col suo ultimo poema sinfonico Capriccio, Conversazione per musica (1941, vertiginoso gioco intellettuale come sintesi della storia del rapporto fra testo e musica, nei generi e nelle forme della musica colta occidentale, tratto dal rimaneggiato settecentesco libretto di Giambattista Casti Prima la musica, poi le parole, musicato da Salieri): nella scena iniziale dell’opera un compositore e un poeta si contendono i favori della Contessa e discutono se debba essere accordata la precedenza alla musica o alla parola, la vecchia diatriba tutta italiana sulla supremazia del testo sulla musica o viceversa, che percorre tutte le riforme del melodramma.

La decisione di musicare un sonetto suscita una disputa fra il poeta, che non vorrebbe che la sua poesia fosse rivestita di note (ne rovinerebbero la bellezza) e la Contessa che, invece, difende la scelta del musicista.

La donna confessa di essere stata sedotta dalla musica, ma sostiene che proprio grazie ad essa ha apprezzato meglio la poesia. Strauss mostra di non avere dubbi su quale sia l’arte dominante, con il delicato e splendido interludio di carattere cameristico, privo di testo, con ensemble strumentale ridotto, che conclude la scena e che manifesta in profondità l’intimità dei sentimenti di cui sono protagonisti i personaggi. Ma in effetti già l’esordio dell’opera, Introduzione, Ouverture – Andante con moto, dichiara l’assolutezza musicale nella sua bellezza, un brano cameristico raffinato per sestetto d’archi, che esprime la libertà dell’arte nella sua forma più pura, un capolavoro di costruzione classica e di armonie romantiche.

Il suono ha in sé in particolare il potere di infrangere lo specchio dell’auto-identificazione col proprio percorso di vita, che spesso può diventare un’ossessione di autoriflesso che intrappola proprio nel luogo dov’era avvenuta, all’origine, la propria liberazione. In Capriccio il compositore ha ripercorso tutti gli schemi di creazione delle proprie opere musicali, di cui per ciascuna aveva sperimentato creativamente una morte-rinascita, e nell’ultima ricapitola tutti gli schemi, propri e della tradizione, liberandosi dalla propria appartenenza e identità, configurando così la liberazione di sé.

Nel diciannovesimo secolo la gerarchia si rovescia: la musica prevale sul testo e sulle arti figurative, per la sua forza di collegamento con l’invisibile, col soprannaturale. Musica miracolo, o sortilegio, o fascinazione introversa, potere di guarigione delle menti e delle anime, di trasformazione intima delle persone, nel bene e nel male, potere di una paradossale possessione.

Oggi che molto si studia e si pratica riguardo il potere delle frequenze, acustiche o luminose, in effetti con maggiore attenzione al suono piuttosto che alla musica (che è ordine nella successione di linee di suoni), la consapevolezza degli effetti delle vibrazioni sonore sulle persone si sta diffondendo com’è noto anche in molte pratiche olistiche di terapia.

Fino dalle sue origini il fenomeno musicale è legato a riti misterici (i misteri efesini di Artemide, i misteri ctonici e i misteri eleusini, in Grecia) e il senso della vista interviene già nel mito del cantore Orfeo come causa agente della tragedia. Orfeo, al cui canto si muovevano le rocce, si ammansivano le belve e si intenerivano le potenze infernali. Orfeo che scende nell’oltretomba e canta il suo amore per Euridice: chiede gli venga data la possibilità di riportarla alla vita.

La sua musica commuove Persefone, Ade, Cerbero e le Furie. Gli viene accordato di portare con sé Euridice, ma a una condizione: lui andrà avanti, lei lo seguirà, e non potrà mai girarsi indietro, perché altrimenti Euridice tornerà per sempre tra i defunti. La musica ha sconfitto la morte.
Orfeo perde per sempre la sua amata Euridice perché non resiste alla tentazione di guardarla, voltandosi, prima di uscire dall’Ade. 

Come a dire che solo affidandosi alla “fede” dell’udito (il silenzio) è possibile ritrovare la luce. Del resto è ancora per motivi di fede che, in Giovanni 4,46-54, la guarigione a distanza del figlio del funzionario di Erode è resa possibile: «Gesù gli risponde: “Va’, tuo figlio vive”. Quell’uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino.» E alla fine del cammino viene a sapere che il figlio è salvo: la fede (il silenzio) aveva teso un filo fra la parola e la guarigione.

In questo contesto è interessante notare  che nell’Ottocento, con la nuova sensibilità romantica, la musica si emancipa dal rapporto con la parola: il tipo di musica considerato più alto è la musica strumentale, la musica assoluta.

Ed è da qui che muove il breve racconto di Kleist, Santa Cecilia o la forza della musica. Ambientata nei Paesi Bassi alla fine del ‘500, la leggenda di Kleist è scritta nello stile e gusto del romantico revival cattolicheggiante. Vi si racconta della miracolosa protezione legata a un santuario, destinato ad essere distrutto dalla furia sacrilega e iconoclasta di quattro fratelli protestanti. Nel periodo della Riforma, molti capi religiosi protestanti incoraggiarono la distruzione delle immagini sacre, ritenendole espressione pagana della fede. 

I fratelli si recano nel santuario di santa Cecilia ad Aquisgrana per devastarne quadri, affreschi e vetrate, alla vigilia del Corpus Domini.
La badessa ha notizia dell’intendimento maligno, ma non trova protezione da parte dell’Ufficiale dell’Impero.

La musica viene definita “arte misteriosa” ed assume una natura femminile: “Nei conventi femminili le monache, come è noto, abituate a suonare ogni genere di strumenti, eseguono da sé le loro musiche, spesso con una precisione, un’intelligenza e un sentimento che mancano alle orchestre maschili (forse a causa della femminilità di quest’arte misteriosa).” 

Purtroppo suor Antonia, la maestra di cappella, direttrice di orchestra e coro, si era ammalata giorni prima, così all’angoscia di ciò che stava per succedere si aggiunge l’imbarazzo di non poter eseguire le musiche adatte alla ricorrenza: un’antichissima messa italiana, di autore ignoto.

Nonostante nella chiesa si fossero aggregati ai fratelli cento ribaldi di ogni ceto ed età, armati di scuri e di sbarre di ferro, la badessa decise di iniziare la funzione, con musiche generiche di oratorio.
Fra lo stupore delle musiciste, la maestra di cappella si presenta nel suo ruolo di guida, e l’esecuzione è splendida. 

“Violini, oboi e contrabbassi erano accordati, quando d’un tratto suor Antonia, fresca e sana, un po’ pallida in volto, apparve in cima alla scala, recando sotto braccio la partitura dell’antichissima messa italiana per la cui esecuzione la badessa aveva insistito tanto.”

“[…] Durante l’intera esecuzione nelle navate e fra i banchi non si mosse un alito, e soprattutto al Salve regina e al Gloria in excelsis fu come se la chiesa fosse stata popolata di morti; tanto che, a dispetto dei quattro fratelli sacrileghi e del loro codazzo, non fu neppure sollevata la polvere del pavimento.”

Sei anni dopo arriva ad Aquisgrana la mamma dei quattro fratelli, di cui aveva perso ogni traccia. Le viene detto che i suoi figli si trovano rinchiusi in un manicomio e che sono dei fanatici, da anni vivono una vita da spettri, non proferiscono parola, ma ogni giorno allo scoccare della mezzanotte si alzano in piedi e a gran voce cantano il Gloria, come marionette. Un canto eseguito in modo orribile, infernale, con una voce che spaccava le finestre. Evidentemente, è la musica ascoltata nella chiesa della patrona dei musicisti ad aver causato nei fratelli la conversione miracolosa, che li ha condannati alla ripetizione liturgica della scena della messa dal giorno del Corpus Domini. 

La donna, che non poteva sostenere la vista raccapricciante di quegli infelici, si era fatta ricondurre a casa, e il mattino seguente incontra un complice dell’impresa fallita dei fratelli, che le racconta dell’interrotto intento distruttivo: “All’attaccare della musica, i vostri figli all’improvviso, con movimento simultaneo, e in uno strano modo che ci colpì, si tolgono il cappello, si coprono, a poco a poco, come in preda a un’intensa, inesprimibile commozione, con le mani il volto chino, e il predicatore, voltandosi d’un tratto, dopo una pausa inquietante, grida a tutti noi, con voce forte e terribile, di scoprirci il capo!”

Segue la descrizione del nascere della follia dei fratelli e del configurarsi ripetitivo della liturgia canora, con gli esiti spaventosi del canto della mezzanotte: “… quell’orrendo, intollerabile ruggito, che sembra innalzarsi, dalle labbra di peccatori dannati per l’eternità, dall’abisso più profondo dell’Inferno di fiamme, verso le orecchie di Dio, implorando miseramente la sua compassione.”

La madre volle vedere poi lo spaventoso teatro sul quale Dio, quasi con folgori invisibili, aveva annientato i suoi figli, e nella chiesa incontrò la badessa. Nota uno spartito aperto a caso su un leggìo: il complice dei figli le aveva fatto venire in mente che avrebbe potuto essere stata la potenza dei suoni, in quel giorno terribile, a turbare e sconvolgere l’animo dei suoi poveri figli, domandò allora alla suora se fosse quella la musica eseguita durante la messa. Alla risposta affermativa, osservò nello spartito gli sconosciuti segni magici con i quali uno spirito terribile sembrava misteriosamente tracciare il suo cerchio, e le parve di cadere al suolo, poiché era aperto proprio al «Gloria in excelsis».

La badessa rivela un dettaglio finora ignoto: la suora Antonia, la maestra di cappella, era malata e assistita da una parente che non si è mai alzata dal suo letto. Quindi chi è che si è presentata sotto le sue sembianze a eseguire la messa? Scopriamo che è stata santa Cecilia ad aver fatto il miracolo, a impersonare suor Antonia, riducendo i quattro fratelli ad automi oranti. 

“Santa Cecilia stessa ha compiuto questo miracolo, a un tempo magnifico e terribile”. Con sapienza, il racconto pone all’inizio la scena dell’arrivo imprevisto della maestra di cappella, malata, a dirigere le consorelle musiciste, e alla fine la scena dello svelamento che non poteva essere lei, perché sappiamo che era allettata con una parente ad assisterla: il lettore può rivedere la scena iniziale nella propria mente e intuire che la figura apparsa in chiesa era in realtà la santa, manifestatasi per opporsi coi suoni alla volontà sacrilega iconoclasta.

La musica, di fonte soprannaturale, ha molto più potere delle sacre immagini, che non avrebbero potuto difendersi dall’attacco. 

L’immagine non può opporsi all’iconoclastia, la musica sì. L’esperienza musicale si situa nell’interiorità e non è comunicabile, ma ineffabile, ciascuno vi corrisponde in modo diverso secondo la propria realtà interiore. 

Raffaello, Estasi di Santa Cecilia, 1516Raffaello Sanzio, 1516, l’estasi mistica della santa patrona della musica, denominato da alcuni il dipinto del silenzio: la musica non risuona materialmente all’orecchio di santa Cecilia, ma solo nella sua anima.

Oppone la musica celeste (in alto il coro di angeli) a quella terrena, in basso natura morta di strumenti musicali rotti e inutilizzabili: una viola da gamba senza corde, due flauti sbreccati, dei sonagli, un triangolo, due tamburelli con la pelle lacerata.

Rappresentano la caducità del profano rispetto all’eternità del sacro, principio messo in evidenza anche dal lento sfilarsi di due canne dell’organo portativo che la Santa tiene in mano capovolto.

Rapita dal canto celestiale angelico, che le si è appena manifestato, Cecilia lascia da parte ogni interesse per la musica terrena e umana.




Roberto Ellero
Operatore olistico di riflessologia plantare taoista musicale. L'esperienza di vita è unica, individuale. Ma d'altra parte si usa parlare di metodi di riflessologia plantare. Per praticità, definisco il mio rapporto col piede come metodo di riflessologia plantare musicale. Coincide col mio dharma. Esso deriva dall’integrazione interiore alchemica di vari strumenti di indagine, con cui ho ampliato la mia coscienza e sensibilità, ne riporto alcuni: la pratica esecutiva e di ascolto nella musica colta occidentale, studi letterari e filosofici, l’utilizzo autoriale del Web e della multimedialità per approfondire le sinestesie, la pratica del tango argentino, la pratica devozionale tantrica di mano destra Guru Yoga nel buddhismo tibetano Karma Kagyu, la pratica tantrica di mano sinistra del trattamento taoista del piede. E' un metodo, ma funziona solo con le mie mani.